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«ll dono di tutte le proprie sostanze è inutile se non è espressione di autentica carità» (1 Cor 13, 3), quindi la Scrittura sembra dire che le azioni virtuose, anche le più focose, in sè sono indifferenti: diventano valide solo se accompagnate dall’opportuna intenzione o consenso interiore. Tuttavia nella parabola del giudizio finale (Mt 25, 31) la bontà delle azioni compiute anche da non credenti parrebbe da sola essere decisiva per il destino eterno di un’anima. I benefattori della parabola infatti danno da mangiare e bere a Dio senza averne l’intenzione, eppure ciò viene loro accreditato come carità fatta a Dio personalmente. In questo passaggio della Scrittura l’intenzione sembra essere proprio irrilevante, ciò che conta è il gesto, la carità pratica!
Cosa credere, dunque?
Cosa trasferire nella «dottrina»?
La Chiesa cerca di risolvere il nodo gordiano parlando di “retta intenzione” e “retta azione”: in linea di principio vanno fatte le cose giuste per il motivo giusto, ma c’è merito nell’agire bene sbagliando l’intenzione iniziale (purchè l’opera finale sia buona), e vi è merito nel pensare bene sbagliandone la traduzione pratica (purchè l’intenzione iniziale sia onesta, pura).